Colpa aberrante

CONTRIBUTO ALLA SOLUZIONE DEL PROBLEMA DELLA

RESPONSABILITA’ OGGETTIVA PENALE

Graziano D’Urso

               1.      Premessa
Cogliendo all’interno del testo “Diritto Penale Parte Generale - G. Fiandaca,  E. Musco”, il più volte rilevato sollecito degli autori di una riforma legislativa diretta ed eliminare la responsabilità obiettiva dagli istituti del Diritto Penale, suggerendo una lettura costituzionalmente orientata delle attuali discipline, in ossequio al Principio di colpevolezza - non soltanto in riferimento al divieto di responsabilità per fatto altrui (1) ma anche per rilevanza del requisito minimo della colpa (2) -, chi scrive si è cimentato nella individuazione di una possibile dogmatica risolutiva della questione.
 Con ciò non si ha però alcuna pretesa di respingere l’orientamento dottrinale contenuto all’interno del testo del Manuale, ma si compie uno sforzo – particolarmente corroborato dalle lacune visibilmente emerse in materia legislativa ordinaria – sentito come “dovuto”, percorrendo la stessa scia tracciata dagli autori.


2.      Questione sulla responsabilità obiettiva

Alla stregua di quanto contenuto all’interno del 1° comma dell’art. 27 Cost., e tenuto conto dell’orientamento giurisprudenziale delle due sentenze storiche della Consulta in riferimento alla responsabilità penale per fatto personale, ben si comprende come all’interno del nostro ordinamento l’imputazione di un reato non può che avvenire sulla base della rilevazione del requisito minimo della colpa.
Ma, a ben guardare, in taluni istituti della parte generale del Codice Penale s’individuano discipline che attribuiscono all’autore di un fatto doloso, conseguenze punite a titolo di colpa, ma la cui imputazione avviene per il mero nesso di causalità materiale (i.e.: responsabilità obiettiva).
L’art. 82 del Codice Penale così si esprime: “Quando, per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato, o per un’altra causa, è cagionata offesa a persona diversa da quella alla quale l’offesa era diretta, il colpevole risponde come se avesse commesso il reato in danno della persona che voleva offendere, salve, per quanto riguarda le circostanze aggravanti e attenuanti, le disposizioni dell’articolo 60. - Qualora, oltre alla persona diversa, sia offesa anche quella alla quale l’offesa era diretta, il colpevole soggiace alla pena stabilita per il reato più grave, aumentata fino alla metà.”
Il primo comma del citato articolo manifesta una rilevante incongruenza giuridica in riferimento all’elemento del dolo: si considera come doloso un fatto che altrimenti (cioè in un contesto nel quale l’agente non avesse l’intenzione di cagionare un delitto) verrebbe considerato come colposo, beninteso, eccettuate le ipotesi di caso fortuito.
Il capoverso del medesimo articolo attribuisce senza alcun dubbio per mera responsabilità obiettiva la conseguenza del fatto all’agente senza preoccuparsi di dover muovere nei suoi confronti un qualche rimprovero per il fatto non voluto.
L’art. 83 del Codice Penale così si esprime: “Fuori dei casi preveduti dall’articolo precedente, se, per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato, o per un’altra causa, si cagiona un evento diverso da quello voluto, il colpevole risponde, a titolo di colpa, dell’evento non voluto, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. - Se il colpevole ha cagionato altresì l’evento voluto, si applicano le regole sul concorso dei reati.
Effettivamente non può prescindersi dalla considerazione che il fatto non voluto sia conseguenza di una condotta, la quale, presa singolarmente (rectius: in un altro contesto), verrebbe considerata colposa in quanto cagionata dalla violazione delle regole di diligenza, prudenza, perizia che la nostra società impone al fine della più sicura convivenza e coesistenza, e delle leggi penali precauzionali, ovvero di regolamenti, ordini, discipline (Art. 43).
E’ la stessa norma di legge a ribadire che il fatto è preveduto come colposo per poter essere imputato a tale titolo.
Ma con certezza, e non può non essere altrimenti, l’ordinamento non può riconoscere colpa nel fatto non voluto anzidetto poiché sarebbe come ordinare all’individuo di tenere la debita diligenza ovvero prudenza ovvero perizia nell’utilizzo dei mezzi per la realizzazione di un altro delitto (voluto) per evitare un fatto ulteriore (non voluto)!
Ciò perché non può chiedersi al delinquente un rispetto di regole sociali o precauzionali d’esperienza dell’homo eiusdem professionis et condicionis.
La conseguenza aberrante alla quale si incorrerebbe giustifica il rifiuto del legislatore, nonché dell’interprete, di considerare il fatto ulteriore (non voluto) come mera colpa. E chi scrive non si dissocia da tale posizione. Ciò però che non si disconosce è certamente che l’agente nel consumare il delitto avesse potuto comunque prevedere o conoscere il fatto ulteriore (non voluto) come conseguenza (o possibile conseguenza) della sua azione (voluta).
A suffragio di quanto detto si richiama la recentissima Sentenza a Sezioni Unite del 22 Gennaio 2009 della Corte di Cassazione N.22676, depositata il 29 Maggio 2009: risolvendo un contrasto di giurisprudenza, le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno affermato che, nell’ipotesi di morte verificatasi in conseguenza dell’assunzione di sostanza stupefacente, la responsabilità penale dello spacciatore ai sensi dell’art. 586 cod. pen. per l’evento morte non voluto richiede non soltanto che sia accertato il nesso di causalità tra cessione e morte, non interrotto da cause eccezionali sopravvenute, ma anche che la morte sia in concreto rimproverabile allo spacciatore e che quindi sia accertata in capo allo stesso la presenza dell’elemento soggettivo della colpa in concreto, ancorata alla violazione di una regola precauzionale (diversa dalla norma penale che incrimina il reato base) e ad un coefficiente di prevedibilità ed evitabilità in concreto del rischio per il bene della vita del soggetto che assume la sostanza. La prevedibilità ed evitabilità dell’evento morte devono essere valutate dal punto di vista di un razionale agente modello che si trovi nella concreta situazione dell’agente reale ed alla stregua di tutte le circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall’agente reale.
La Suprema Corte non richiama il principio dell’homo eiusdem professionis et condicionis – com’è ovvio – ma, come ha affermato Tesauro, ha utilizzato il principio, a dir il vero non poco innovativo, della colpa in concreto, ove potesse esser ragionevolmente escluso il sopraggiungere di cause da sole sufficienti a concretizzare l’evento.
Il nostro ordinamento conosce ancora, dalla preterintenzione ai reati aggravati dall’evento, altri casi di responsabilità obiettiva (misti a dolo), talvolta assoggettati a tentativi di rilettura che tenga conto della colpa in luogo della responsabilità obiettiva (suffragati da orientamenti d’origine transalpina), in altri contesti divengono oggetto di proposte di abrogazione.
La dissonanza di questi istituti con il nostro orientamento giurisprudenziale costituzionale (più che col nostro ordinamento costituzionale tout court) è stridente: ciò giustifica la presenza di questi fenomeni interpretativi/abrogativi come naturale prodotto della discrasia in esame.
Trovandosi quindi di fronte ad un aut aut, in luogo di trovar una onesta soluzione, non può che doversi afferrare il toro per le corna.

3.      La colpa aberrante
Ebbene la soluzione sarebbe quella di ricondurre quel plus che accompagna il dolo - che l’ordinamento imputa a responsabilità obiettiva – ad una filiazione della colpa.
Filiazione che sconta in partenza un certo livello di eccezione rispetto alla regola: sarebbe escluso dal computo tutte le volte il principio dell’homo eiusdem professionis et condicionis, per accogliere ogni volta la conoscibilità in concreto delle possibili conseguenze da un lato, e un transito dal dolo dall’altro.
Trattasi pertanto di una configurazione della colpevolezza che non può attribuirsi passando per il rimprovero dell’inosservanza di regole di diligenza, ma dall’errore (rimproverabile, si badi a certe condizioni) nella realizzazione di un fatto doloso.
 A scanso di equivoci, non vuolsi ribaltare il principio secondo cui non ha senso rimproverare il reo per non aver rispettato le regole di diligenza nel commettere il reato (riconducibile a soluzione certamente aberrante!); si badi bene: si rimprovera il maggior disvalore del danno cagionato nel contesto di una realizzazione di un reato per il semplice fatto che a ciò ci si è giunti transitando per un reato doloso, corroborato nella sua materialità lesiva dalla maggior riprovevolezza percepita dalla società. Il fatto ulteriore è conoscibilmente o prevedibilmente (ovvero anche per disattenzione, sbadataggine, superficialità, leggerezza, etc) opera del reo, ad egli personalmente riconducibile.
Fintantoché il fatto è personalmente riconducibile all’agente, anche nel contesto di un reato doloso diverso, è ad egli imputabile per colpa aberrante: se sussiste il nesso psicologico, anche transitando per il dolo, il fatto ulteriore (non voluto) non è conseguenza della mera causalità materiale.
La colpa aberrante, in quanto filiazione della colpa semplice, sarebbe dotata di una maggiore riprovevolezza sociale in quanto non riconducibile alla mera colpa (molto più lieve perché non lambita dalla volontà criminale), ma una minore in riferimento al dolo (in quanto è da escludere nella colpa aberrante l’elemento volitivo criminale sicché fa difetto della stessa volontà).
E ancora, non è colpa perché non si richiede il rispetto di regole generali di diligenza (ma la prevedibilità in concreto); non è dolo perché non si commette quel reato, o non si offende quella persona, o non si lede quel bene, etc.
Forse può parlarsi di tertium genus di colpevolezza, una mediazione fra dolo e colpa, nel senso in cui parlano gli autori del Manuale in riferimento al fenomeno dell’aberratio ictus: “Se si condivide tale obiezione, per scongiurare la responsabilità meramente obiettiva, si può richiedere che il giudice accerti (in violazione di una vera e propria regola cautelare) la mera prevedibilità in concreto, da parte dell’agente, dell’evento cagionato a persona diversa: cioè un requisito minimo di colpevolezza che, seppur non identico in tutto e per tutto alla colpa, a questa può essere assimilato”(3).
Siffatta configurazione di colpevolezza rispetta in pieno il disposto dell’art. 27, 1° comma Cost., in quanto non eccede il dolo né precede la colpa in quanto è da collocarsi – per disvalore – in quel range d’imputabilità compreso fra gli stessi dolo e colpa: è un criterio d’imputazione orbitante ineludibilmente attorno alla colpa, gravato però di un correttivo indispensabile al fine d’escludere una volta per tutte la responsabilità obiettiva.
Non trattasi dell’”ibrido” carattere – in riferimento alla ignorantia iuris – di cui gli autori accennano nel Manuale (4); ma già solo che questi parlino di una plausibile configurabilità di commistioni di tal fatta farebbe ben sperare.
Emancipando il nostro diritto da ogni forma d’imputazione per responsabilità oggettiva - ancora contaminata da casi di forza maggiore o caso fortuito -, e convertendo la restante imputazione in colpa aberrante (ove possano rilevarsi i requisiti di cui supra) si potranno introdurre nel nostro ordinamento quegli aggiustamenti auspicati dalla dottrina, alla luce della citata giurisprudenza costituzionale.
Questa anomala figura di colpa surrogherebbe quel quid pluris ancora in diritto camuffato da responsabilità obiettiva (nei casi ove possa escludersi il caso fortuito: v. Sent. Cost, 1085/88), colmare le lacune giuridiche, corroborare la certezza del diritto, rispettare il principio di colpevolezza.
Così riconfigurando la colpevolezza l’aberractio ictus monolesiva si tradurrebbe (Art. 82) in un’offesa cagionata per colpa aberrante punita non così lievemente come se fosse mera colpa, ma neanche tanto gravemente come se fosse dolo; l’aberractio ictus plurilesiva si tradurrebbe in un concorso di reati (imputabile a titolo di dolo e di colpa aberrante, non già pertanto la seconda colpa semplice); l’aberractio delicti (Art. 83) si tradurrebbe, nel primo comma della disciplina codicistica, in un reato punito più gravemente (poiché per realizzare il fatto non voluto si è transitato per la volontà di ledere il tessuto giuridico dell’ordinamento) cioè a titolo di colpa aberrante; il secondo comma in un concorso di reati – anche questa volta – imputabile quello non voluto a titolo di colpa aberrante (più gravemente), e non colpa semplice.
Stessa soluzione per il delitto preterintenzionale e per il reato aggravato dall’evento: cioè concorso di reati. La preterintenzione si tradurrebbe in una commistione tra dolo e colpa aberrante (ove il giudice pondererebbe equamente quanto a titolo dell’una e quanto dell’altra specie di colpevolezza).

4.      Riserva critica

A conclusione di questo compendiato intervento chi scrive si sente in dovere di esporre una parva riserva nei confronti della stessa interpretazione giurisprudenziale che la Consulta ha elaborato in riferimento al primo comma dell’art. 27 Cost.
Mentre è d’accogliere con certezza il principio reso esplicito dalla Corte Costituzionale del divieto di responsabilità che non sia almeno per colpa, si paventa una non poca creatività nell’aver individuato citato principio nel suddetto comma: se il legislatore costituzionale, liberal-democratico e ciellenista, avesse voluto porre una norma che non consacrasse a rango costituzionale il solo principio del divieto di responsabilità per fatto altrui, non avrebbe potuto più semplicemente inserire un comma – ovvero formulare già il primo – nel modo seguente: non è ammessa responsabilità obiettiva, oppure anche non è ammessa responsabilità che non sia per dolo o per colpa?
Non è lecito dubitare di una riserva di tal fatta se vuolsi tributare una qual certa fondatezza al brocardo ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit.
Senz’altro apprezzabile l’intento della giurisprudenza costituzionale ma in questo caso forse ha forzato la dizione del testo normativo fondamentale.







(1) Art. 27, 1° comma, Cost.:  Le responsabilità penale è personale.
(2) Sentt. 364/88, 1085/88.

(3) FIANDACA-MUSCO, Diritto Penale Parte Generale, cit. 392
(4) FIANDACA-MUSCO, Diritto Penale Parte Generale, cit. 407